Freschi
di stampa
Dal numero 3 di www.scriptamanent.net,
pubblichiamo in anteprima
Per qualche punto di audience in
più
La qualità
della maggioranza dei programmi televisivi è proprio
bassa: colpa della disperata ricerca dell’audience?
Ma quali gruppi costituiscono l’indice di ascolto?
Antonello Placanica presenta un volume di Sonia Livingstone,
che affronta la questione
"«L’indice
di ascolto è diventato più importante del
prodotto. Ciò va benissimo in un supermercato, dove
esiste una vera scelta tra prodotti. Però per la
televisione, in cui quasi tutti i canali si assomigliano,
noi – gli spettatori italiani – non abbiamo
una scelta. C’è pochissima diversità
perché tutti sono alla caccia dello “share”
d’ascolto e si usano i mezzi più volgari per
vincere la battaglia dell’audience. La conseguenza
è che la tv non è un mezzo per istruire o
dibattere. Il suo unico dovere è vendere: vendere
spazi pubblicitari che poi vendono prodotti».
È un brano pubblicato di recente sul quotidiano «la
Repubblica», estratto da uno scritto di Tobias Jones,
saggista inglese autore anche di un articolo sulla televisione
italiana, apparso sul «Financial Times», che
ha scatenato polemiche, più o meno pretestuose. Su
una cosa, tuttavia, non si può non essere universalmente
d’accordo: l’audience rappresenta, allo stato
attuale, uno dei settori più interessanti che riguardano
lo studio dei media.
Di una ricerca su questo ambito si occupa il saggio di Sonia
Livingstone, dal titolo «La ricerca sull’audience.
Problemi e prospettive di una disciplina al bivio»,
a cura di Chiara Giaccardi, con «Postfazione»
di Milly Buonanno (pp. 82, € 6,20).
.
La
spada di Damocle dell’audience
«Le audience costituiscono un oggetto sociale e culturale
entro il complesso orizzonte della realtà quotidiana
e sono incluse tanto nel macrocosmo dell’economia
politica quanto nel microcosmo dell’esistenza domestica
di ogni giorno»; addirittura sono «potenzialmente
il perno essenziale per la comprensione di un’intera
serie di processi sociali e culturali relativi alle questioni
centrali della comunicazione pubblica, che sono fondamentalmente
questioni di cultura». Tuttavia, ancora non è
ben definito un significato univoco del termine audience.
Esistono, infatti «una concezione tassonomica e una
collettiva: la prima si riferisce ad un gruppo di individui
che, sebbene non potranno mai incontrarsi, sono accomunati
dal guardare la televisione, la seconda si riferisce invece
ad un gruppo di individui che interagiscono fra di loro
in relazione ai mezzi di comunicazione che consumano».
Ciò che sembra chiaro, invece, è che «in
misura sempre crescente l’essere membri di audience
mediali sta diventando un modo essenziale di partecipazione
alla vita pubblica come cittadini». Ma allora –
si chiede l’autrice – «cos’è
l’audience? Un gruppo compatto e unitario? Oppure
la somma di sottogruppi differenti e talvolta marginali?
Come intendere lo spettatore? Come un consumatore o come
un cittadino? E ancora: qual è il compito del servizio
pubblico, quello di dare agli spettatori ciò di cui
hanno bisogno, ciò che meritano, ciò che vogliono
o ciò per cui sono disposti a pagare? E quanto dovrebbe
essere coinvolta l’audience – o lo Stato –
in tali processi decisionali?».
Insomma, per dirla tutta, quale dovrebbe essere la concezione
dell’audience alla quale i ricercatori devono far
riferimento?
Le
conclusioni del volume
La posizione dell’autrice sembra essere piuttosto
pilatesca: «L’opzione migliore fra le tre possibili,
per il momento, è star fermi e concedersi una pausa
di riflessione, che potrebbe avere l’effetto di sdrammatizzare
i problemi o comunque di farli apparire più governabili».
Nella «Postfazione» Milly Buonanno, docente
di Sociologia della comunicazione, ne suggerisce un’altra:
«Andare avanti, ciò che nel caso specifico
significa continuare o riprendere o cominciare a fare ricerca
sull’audience».
La presentazione del lavoro della Livingstone – come
detto – è a cura di Chiara Giaccardi, anch'essa
docente di Sociologia della comunicazione.
Antonello Placanica
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